C’è stato un tempo, nemmeno troppo remoto, in cui l’Europa amava raccontarsi come una potenza autonoma. Una terza via tra le superpotenze, capace di coniugare diplomazia, economia, stabilità e, perché no, un certo soft power. Quel tempo oggi sembra appartenere alla mitologia. E a certificare la fine di quell’illusione è, senza troppi giri di parole, Emmanuel Todd: la guerra in Ucraina non ha solo ridisegnato i confini a est, ha reso evidente il collasso dell’Europa come attore geopolitico indipendente.

Lo schiaffo più eclatante? La vicenda del gasdotto Nord Stream. Un sabotaggio che ha colpito direttamente gli interessi energetici della Germania e, per estensione, dell’intera Unione Europea. E cosa ha fatto Berlino? Nulla. Nessuna protesta, nessun grido d’allarme, nessuna volontà di andare a fondo sulla questione. Un silenzio assordante che suona come un’accettazione supina di decisioni prese altrove.
Ma il declino dell’Europa non si ferma a quel tubo fatto saltare in mare. In pochi anni, gli equilibri interni del continente si sono ribaltati. L’asse Parigi-Berlino, una volta motore politico dell’Unione, è stato sostituito da un insolito trio: Londra-Varsavia-Kiev. E dietro le quinte, neanche troppo nascoste, c’è sempre la regia di Washington.
Dopo la Brexit, il Regno Unito non ha perso tempo a ritagliarsi un nuovo ruolo: primo paladino dell’atlantismo militante, con un fervore antirusso che ha radici storiche profonde. Londra ha messo a disposizione di Kiev armi pesanti e una retorica bellicosa che poco si addice a chi, solo pochi anni fa, si fregiava di essere il "ponte" tra Europa e mondo anglosassone.
La Polonia, dal canto suo, ha sfruttato l’occasione per imporsi come interlocutore privilegiato degli Stati Uniti dentro l’UE, superando di slancio la vecchia leadership tedesca. Varsavia è oggi l’alleato ideale: fedele, schierato, senza ambiguità.
E poi ci sono i Paesi scandinavi. Un tempo simbolo di neutralità, pragmatismo e diplomazia, oggi sono in prima fila: Norvegia e Danimarca come partner militari USA, Finlandia e Svezia che, abbandonata ogni esitazione, si sono tuffate nella NATO. Due nazioni che avevano fatto della loro indipendenza strategica un marchio distintivo, ora sono parte integrante della linea del fronte occidentale contro Mosca.
Risultato? Un’Europa disarticolata, fragile, che pare aver perso la capacità (e forse la voglia) di essere un soggetto geopolitico a sé stante. Ogni Paese preferisce posizionarsi come fedele esecutore della volontà americana piuttosto che sedersi a un tavolo per definire una linea comune. Si è passati, senza colpo ferire, da una leadership condivisa a una frammentazione sistemica.
E qui si innesta un elemento tutt’altro che secondario: la debolezza interna dell’Europa. Governi traballanti, leadership fragili, coalizioni precarie. Francia e Germania, un tempo garanti di stabilità, sono oggi paralizzate da tensioni interne e calcoli elettorali a corto respiro. L’Italia, da sempre oscillante, non fa eccezione. In un contesto dove manca la coesione e ogni capitale ha più a cuore la tenuta del governo di turno che il futuro dell’Unione, il risultato è quello che vediamo: nessuno spazio per una strategia comune, nessuna voce capace di alzarsi contro le imposizioni esterne.
La domanda, a questo punto, non è solo se l’Europa possa tornare protagonista. È più cruda: l’Europa ha ancora la volontà politica e la maturità per farlo? O continueremo ad assistere, con la bandiera piegata sotto braccio, allo spettacolo di una partita che si gioca altrove?