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Writer's pictureLaurent Ferrante

Il vero potere si nasconde alla vista

Il potere, inteso come capacità di determinare i comportamenti di una persona o di un gruppo sociale, può assumere molte forme e come spesso accade, quelle meno visibili sono anche quelle più pericolose.


Per natura l’essere umano tende a scivolare nell’abitudine trovando rifugio e conforto in una vita ordinata, normata e pertanto normale e ordinaria. La nostra attenzione si risveglia solo di fronte ad eventi sensazionali, ad accadimenti, cioè, che interrompono il paesaggio della nostra consuetudine, stagliandosi sul fondale delle nostre esistenze quotidiane. Quando, come un passante che ci urtasse sul marciapiede, un fatto inatteso costringe la nostra mente a soffermarsi su di esso per trovarvi una collocazione, valutandone rilevanza e pericolosità.


La violenza, insieme alla morte, è l’evento stra-ordinario per eccellenza. Ci allarma e induce in noi una reazione istintiva che attiva la sfera della sopravvivenza, lasciando su di noi “un segno che significa”. Di solito di fronte ad essa alziamo gli scudi, in protezione, pronti a difenderci e contrattaccare.


La violenza quindi non passa inosservata. Genera anzi ostilità e resistenza, nell’individuo che la subisce e in coloro che, assistendovi, temono di poterla subire a loro volta.


Questo fa della violenza uno strumento di potere assai più debole di quanto non si pensi.


L’uso della violenza è la cifra di un potere coercitivo e repressivo molto visibile – e molto allarmante – che produce automaticamente un senso di sospetto e sfiducia, e tende a generare vere e proprie sacche di resistenza. Così, il potere coercitivo perde presa sui sottoposti e diventa instabile, vedendosi costretto ad affermare continuamente la propria autorità, serrando il suo giogo con sempre maggior forza ed efferatezza. La spirale di brutalità in cui finisce per impigliarsi questo tipo di potere emerge chiaramente in tutta la storia delle dittature militari del ventesimo secolo. In questi casi, il rapporto tra il superiore e il sottoposto, fondato sull’oppressione, non si configura più come rapporto di potere ma come rapporto di costrizione.


Se l’obiettivo del potere è quello di perpetrarsi e consolidarsi, è evidente che la violenza non può essere uno strumento di governo soddisfacente. E infatti in buona parte del pianeta il potere si esprime in forme decisamente più pacificate dove l’uso della violenza è stato sostituito dall’uso della propaganda.


È ciò che porta il sociologo Niklas Luhmann ad affermare che «La violenza fisica non è impiego di potere, bensì è indice del suo fallimento».


Il vero potere non si esercita, infatti, attraverso un’azione fisica diretta sui corpi. Il vero potere si ha quando il potente è in grado di plasmare le opinioni e i comportamenti del proprio popolo, di modo che questo si sottoponga di sua spontanea volontà, e magari persino con entusiasmo.


Questo perché il potere non è un bene che si può possedere – come una clava da dare in testa all’Altro – ma un processo dinamico su cui si esercita influenza. Il potere, quindi, non risiede nelle mani del potente, ma nella relazione che il potente instaura con l’Altro.


Il vero potere è quindi, essenzialmente, comunicazione.


Lo scopo di questa comunicazione è quello di inglobare l’Altro persuadendolo ad aderire “liberamente” allo schema di regole proposto dal potente e a parteciparvi attivamente diventandone ambasciatore – consapevolmente o meno ambasciatore. Al contrario, la violenza mira a cancellare l’Altro fisicamente o psicologicamente, riducendolo ad un’obbedienza passiva.


Il potere persuasivo costruisce una relazione capace di riprodurre il potere, consolidandolo, mentre il potere coercitivo risulta, in termini di riproduzione del potere, totalmente sterile.


La parola chiave qui è “consenso”. Ma come si fa a persuadere una persona, un gruppo sociale e persino un intero popolo ad accettare il rapporto di subordinazione, e a farlo anche col sorriso? Come si fa a fargli pronunciare, per dirla con Byung-Chul Han, quell’«enfatico sì» essenziale per la riproduzione del potere?


Come abbiamo capito, per essere efficace, il potere deve nascondersi. Deve evitare di destare la nostra attenzione. Deve infiltrarsi nelle pieghe della nostra vita ordinaria e intrecciarsi saldamente con la nostra natura abitudinaria e auto-conservativa.


Un potere forte, spiega Michel Foucault, «Prende la forma insidiosa, quotidiana, abituale della norma, ed è così che si nasconde come potere e si presenta come società».


Deve presentarsi come qualcosa di quotidiano o di ovvio, cosicché i soggetti possano sentirsi “liberi” di aderire all’ordine del potere.


Deve cioè, entrarci sotto pelle, silenzioso ed invisibile. Tutto deve promuovere il potere, “venderci” il sistema, ma indirettamente: la pubblicità per la macchina o per il detersivo, la retorica che ti vuole “imprenditore di te stesso”, la continua promozione della competizione a tutti i livelli, l’enfasi sulla produttività, i talent show, i supereroi, l’architettura dei rapporti di lavoro, l’esaltazione dei milionari. La manipolazione del consenso attraverso questi espedienti è stata abbondantemente documentata dai suoi fautori, Edward Bernays e Walter Lippmann su tutti, e dai suoi critici, tra cui citerò qui, per brevità, solo Noam Chomsky e Marco D’Eramo.


Attraverso la propaganda, il potere deve scivolare sullo sfondo, entrare, per così dire, a far parte del paesaggio della nostra vita. Diventare consuetudine, trasformarsi in un elemento familiare che non viene messo in discussione e che contribuisce a formare le nostre certezze e le nostre abitudini.


Controllando in maniera così pervasiva la narrazione e l’ambiente in cui ci troviamo ad evolvere, il potere riesce al contempo a nascondersi e a modellare i nostri gusti, i nostri desideri, l’idea stessa che abbiamo di noi stessi, i nostri valori.


Discreto e sottile, mette radici nella nostra identità, sicché il sistema di potere – ovvero le regole sociali su cui prospera – viene interiorizzato. Così, finiamo per promuovere il sistema stesso con il semplice, naturale atto di vivere. Muovendoci nel mondo e giocando inevitabilmente secondo le regole imposte dal potere ci facciamo araldi inconsapevoli del suo messaggio, che viene riprodotto e propagato attraverso di noi come attraverso un megafono.


Raggiunto un simile livello di maturazione del sistema, non c’è quasi più bisogno che il potente si sforzi di persuaderci poiché diveniamo noi stessi agenti della propaganda, brand ambassador del potere costituito.


Si arriva al punto in cui il potere è penetrato talmente in profondità, che sradicare il sistema comporta una lacerazione della nostra identità. Prospettiva che per gran parte di noi non suona molto desiderabile.


Acquisito un così largo consenso, può persino tornare attuale lo strumento della violenza poiché il potente può esercitarla “in nome del popolo” sulla minoranza che rifiuta di farsi inglobare. Hannah Arendt spiega che è «Il potere schiacciante di questa maggioranza e della sua opinione a dare incarico, quindi potere, alla polizia di procedere con la violenza contro coloro che si sottraggono al loro diktat».


Tutto questo può suonare piuttosto deprimente, per non dire totalmente scoraggiante. Ma uno spiraglio c’è, per fortuna. Rileggendo le parole di Harendt sulla forza straripante che il potente ottiene dalla «schiacciante maggioranza», ci si accorge che non si parla di totalità e anzi, si menziona apertamente la «minoranza che rifiuta di farsi inglobare». Resistere, quindi non solo è possibile, ma accade continuamente.


Se è vero, come sosteneva Margaret Mead, che basta un piccolo gruppo di cittadini impegnati per cambiare il mondo e che, in realtà, è l’unica cosa che è sempre accaduta, allora possiamo mantenerci ragionevolmente ottimisti.


Una minoranza tenace esiste. Per tutti gli altri, esiste la possibilità della conversione. Certo, il sistema di potere è ormai intrecciato con la nostra identità, ma non è detto che lo si debba estirpare con uno strappo netto, come un cerotto. Si può invece scucire un punto per volta e scioglierci gradualmente dalla sua presa.


Ci sono poi accadimenti che possono incrinare il racconto su cui il potere basa la sua forza. Eventi che possono imprimere un’accelerazione al processo di emancipazione. La violenza, lo abbiamo visto all’inizio, è sempre un elemento di risveglio. Anche quando poggia sul sostegno della “schiacciante maggioranza”. Pertanto, per conservare il consenso, il potente deve assicurarsi che l’uso della violenza risulti coerente con il racconto del potere stesso, e cioè con i valori che sono stati “venduti” alla maggioranza e costituiscono il nucleo della relazione di potere.


Altrimenti, il ricorso alla violenza può spezzare la narrazione e con questa anche la relazione di potere, poiché viene a mancare la condivisione. Il treno silenzioso della routine deraglia e di colpo il singolo smaschera la dinamica di potere, avverte l’imposizione forzata delle regole e le percepisce come estranee a sé. Il re è nudo, e perde – o quantomeno inizia a perdere – influenza sull’Altro.


È quello che sta succedendo oggi nell’Occidente globale, dove il sostegno incondizionato allo sterminio di innocenti in Palestina e la furia bellicista dell’Unione Europea risultano gravemente dissonanti rispetto all’idea che i cittadini occidentali erano stati indotti ad avere di sé e del sistema di cui fanno parte.


Basterà a risvegliare pulsioni emancipatorie? Certamente no. Ma il seme del dubbio si è piantato nella coscienza collettiva. Ed è un buon inizio.




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