Le lancette dell'orologio segnano un altro mese, un altro record negativo. Settembre 2024 non è solo il ventunesimo mese consecutivo di declino per l'industria italiana, ma rappresenta il momento in cui non possiamo più fingere che si tratti di una crisi passeggera. Il calo del 4% rispetto all'anno precedente racconta una storia che va ben oltre i freddi numeri: è il racconto di un sistema industriale che ha smarrito la sua bussola.
Camminando tra i capannoni silenziosi del distretto dei trasporti, dove la produzione è precipitata del 15,4%, si percepisce fisicamente il peso di questa crisi. Non va meglio nei storici distretti del tessile, dove il Made in Italy, orgoglio nazionale, arranca con un -10,7%. Persino il settore energetico, tradizionale ancora di salvezza nei momenti difficili, mostra crepe preoccupanti, con un calo dell'8,1% nella produzione di derivati petroliferi.
Eppure, in questo panorama a tinte fosche, alcuni settori brillano come fari nella notte. L'elettronica e la produzione di apparecchiature elettriche mostrano una vitalità sorprendente, quasi a suggerire che il futuro dell'industria italiana potrebbe nascere proprio dalle ceneri del presente. Ma per comprendere dove stiamo andando, dobbiamo prima capire come siamo arrivati fin qui.
La storia di questo declino inizia molto prima dei numeri attuali. Affonda le sue radici in scelte ideologiche precise, quando l'Italia ha progressivamente abbracciato il mantra del "tutto mercato", dismettendo gli strumenti di politica industriale che avevano guidato il miracolo economico. Come un pendolo impazzito, il Paese è passato dall'interventismo statale degli anni d'oro a un liberismo acritico, dimenticando che la vera arte del governo sta nel trovare il giusto equilibrio.
Nelle aule universitarie, gli studi di economia industriale sono stati gradualmente sostituiti da modelli sempre più astratti. Mentre i nostri vicini europei mantenevano un saldo presidio sulla loro politica industriale - basti pensare alla Francia o alla Germania - l'Italia sembrava convinta che il mercato, da solo, avrebbe risolto ogni problema.
Ma c'è di più. L'Italia ha progressivamente dimenticato la sua natura di potenza mediterranea, la sua vocazione di ponte tra Europa, Nord Africa e Medio Oriente. Come un attore che dimentica il proprio ruolo migliore, il Paese si è accontentato di diventare un fornitore specializzato dell'industria tedesca. Una scelta che sembrava pragmatica ma che oggi, con la Germania stessa in difficoltà, mostra tutti i suoi limiti.
Il quadro si completa con il vincolo della politica monetaria europea. L'euro, che doveva essere uno strumento di stabilità e crescita, si è trasformato in una camicia di forza per un paese che avrebbe avuto bisogno di politiche espansive per sostenere la sua trasformazione industriale. Mentre gli Stati Uniti potevano rispondere alle crisi con massicce iniezioni di liquidità, l'Italia si trovava costretta in un rigido quadro di austerità.
Ma non tutto è perduto. In questo momento di crisi si nascondono i semi di una possibile rinascita. Le isole di eccellenza nell'elettronica e nelle nuove tecnologie dimostrano che l'industria italiana sa ancora innovare quando le condizioni lo permettono. La sfida è trasformare queste eccellenze isolate in un nuovo modello di sviluppo industriale.
Per farlo, serve un cambio di paradigma per costruire una nuova politica industriale adatta al XXI secolo. Una politica che sappia combinare il sostegno pubblico all'innovazione con la flessibilità dei nuovi sistemi produttivi e che recuperi la dimensione mediterranea dell'Italia senza isolarla, che trovi spazi di manovra aggirando i vincoli monetari.
La vera domanda non è se l'industria italiana sopravviverà a questa crisi, ma quale industria emergerà da essa. Saremo capaci di trasformare questo momento di difficoltà in un'opportunità di rinnovamento? La risposta non sta solo nelle politiche pubbliche o nelle strategie aziendali, ma nella capacità dell'intero sistema Paese di ritrovare una visione comune del futuro.
Il settembre nero dell'industria italiana potrebbe essere ricordato non come l'inizio della fine, ma come la fine di un inizio. La fine di un modello industriale obsoleto e l'inizio di una nuova fase di sviluppo. Ma per far sì che questo accada, serve il coraggio di guardare in faccia la realtà e la determinazione di cambiarla. Il tempo delle mezze misure è finito. È il momento delle scelte coraggiose, delle visioni di lungo periodo, della capacità di immaginare un futuro diverso per l'industria italiana. E soprattutto, è il momento di agire per realizzarlo. Già ma con quale classe dirigente?